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Forse è troppo parlare di "conversione", ma di una svolta esistenziale sicuramente sì. L’ingegner Vito Alfieri Fontana, 52 anni, di Bari, sposato con due figli, ne è convinto. Non ha mai conosciuto don Tonino Bello, ma la sua "nuova" vita ne porta l’impronta, poiché deve a lui se la sua strada ha cambiato radicalmente direzione. Era il 1993, una decina di giorni prima che il vescovo di Molfetta morisse consumato dal male. L’ingegner Fontana era allora comproprietario della Tecnovar, azienda di una sessantina di dipendenti che produceva componenti per mine anticarro e antiuomo, bombe a mano e altri aggeggi del genere: un’azienda non grande, ma con un non trascurabile giro d’affari con il Sud del mondo. In Italia in quel tempo fioriva la campagna di molte organizzazioni umanitarie per la messa al bando di quegli ordigni e l’approvazione di un trattato internazionale. Fontana riceve da Pax Christi, di cui Tonino Bello era presidente, un invito a partecipare a un convegno sul commercio delle armi. Rimane un po’ sorpreso. A lui, produttore di quel tipo di "merce", viene chiesto un confronto con quelli che ne chiedono il bando. "Don" Tonino muore poco prima del convegno, che si tiene ugualmente, per suo volere. E l’ingegner Alfieri Fontana accetta, spinto da un impulso strano: conosce don Tonino solo per fama, per le sue prese di posizione sulla pace e contro il commercio di armi, lo considera, dice lui stesso, un personaggio "stravagante", eppure ne subisce il fascino, «perché», dice oggi, «mentre stava morendo ha pensato a me e questo fatto mi ha colpito, l’ho visto come un segno». Vito Alfieri Fontana partecipa al convegno in un contesto che non gli è certo favorevole. «Un confronto iniziato duramente», ricorda, «che però è andato ammorbidendosi nel dibattito; in fondo anch’io davo ragione ad alcune argomentazioni sui traffici illegali di armi e la necessità di controlli più severi. In quel campo avevo visto di tutto». La decisione di cambiare strada Quel momento segna l’inizio della svolta esistenziale. L’ingegner Vito Alfieri Fontana comincia a riflettere sulla sua attività imprenditoriale e matura la decisione di cambiare strada, radicalmente. In un’intervista del 1996 ad Alberto Chiara per Famiglia Cristiana, dichiara di essere in piena crisi di coscienza e poco dopo chiude l’azienda, peraltro già in difficoltà. Il terzo atto della sua storia comincia subito dopo, quando Fontana decide di mettere la sua esperienza al servizio dell’altra causa, quella delle vittime: diventa consulente dalla Campagna contro le mine in vista del trattato internazionale per la messa al bando degli ordigni. Non solo: rispondendo a un invito dell’associazione Intersos, una Ong specializzata in interventi di emergenza in zone di guerra, che cerca esperti per la bonifica dei campi minati nella ex Jugoslavia, Fontana si offre come volontario e parte per la sua nuova destinazione: da produttore di mine diventa sminatore. Trascorre due anni in Kosovo, sei mesi in Serbia, un anno in Bosnia, in un ruolo completamente nuovo, quasi un’espiazione: il distacco dalla famiglia, la scoperta di un mondo sconvolto dalla guerra. L’innocenza della gente «All’inizio credevo di non farcela, era durissimo, ho
visto cose terribili; ero a contatto con l’innocenza di gente semplice e
ospitale, vittima della violenza, che pure ti trattava con bontà e
generosità». In questi giorni l’ingegnere Fontana si prepara a
ripartire per una nuova missione in Bosnia, poi forse andrà in
Afghanistan. La sua vita ormai è questa, parla della sua passata
attività come della "malaugurata esperienza". Confessa tuttavia
di non aver letto nulla di don Tonino, né di aver voluto approfondire la
sua conoscenza: La Fondazione Don Tonino Bello lo ha invitato ad Alessano, in provincia di Lecce, paese natale del vescovo, per visitare la casa e la tomba. È un appuntamento cui l’ingegnere Fontana non mancherà, al primo rientro in Italia.
Claudio
Ragaini
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